La mia Terra di Mezzo

Tra un fonendo ed una tazza, scorre la mia Terra di Mezzo, il mio presente.....Le porte? Si possono aprire, spalancare sul mondo, ma si possono anche chiudere, per custodire preziosi silenzi e recondite preghiere....





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sabato 26 novembre 2011

Mostra di A. Gaudì a Roma



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Gaudí era un architetto santo e siccome gli architetti contemporanei sono degli indemoniati bisogna usare la Sagrada Familia come si usavano l’aglio e il crocefisso contro i vampiri. Bisogna riempire le loro caselle e-mail con immagini del “gigantesco poema di pietra”, bisogna procurarsi dei modellini del tempio di Barcellona e mostrarglieli per farli indietreggiare, perché smettano di affondare i loro canini iconoclasti nel collo del cattolicesimo italiano. Botta, Gregotti, Purini, Piano, Fuksas, Meier, Quintelli e Sartogo sono architetti non-morti che disegnano chiese non-vive (senza campanili croci tabernacoli o con campanili croci tabernacoli invisibili allo scopo di occultare la presenza vivificante ed esigente di Cristo). Il confronto con l’arte abbagliante del maestro catalano li denuncia così come il sorgere del sole denuncia Dracula.

Gaudí era un patriota, per la precisione un patriota catalano, all’epoca in cui il centralismo castigliano girava per le strade armato fino ai denti e soltanto parlare la lingua che fu dei sovrani aragonesi e dei papi Borgia esponeva a grossi rischi. Il cantiere della Sagrada Familia attirava grandi personaggi. Andò a visitarlo il filosofo Unamuno e Gaudí parlò in catalano, prima di congedarlo bruscamente perché era suonata la campana dell’Angelus e doveva ritirarsi in preghiera. Andò a visitarlo il medico Albert Schweitzer e anche a lui parlò in catalano, spiegandogli che solo nella sua piccola lingua neolatina gli era possibile descrivere il proprio lavoro. Andò a visitarlo Alfonso XIII, il re di Spagna, e perfino al simbolo dell’unità nazionale Gaudí parlò in catalano, e la cosa dovette avere il suono della provocazione, se non dell’insubordinazione. Come se oggi al presidente Napolitano in visita a Treviso le personalità locali si rivolgessero dall’inizio alla fine in veneto stretto. “Gaudí non aveva mai nemmeno fatto il minimo sforzo per promuovere se stesso”, scrive lo storico Gijs van Hensbergen nella biografia “Gaudí” pubblicata in Italia da Lindau e qui abbondantemente saccheggiata. L’11 settembre 1924 la guardia civile impedì l’ingresso nella chiesa dove si doveva celebrare la messa per i martiri catalani di un’antica sollevazione, Gaudí protestò e venne arrestato, quindi, nonostante la fama e l’età, trascinato in cella. “L’aggressività nei miei confronti era dovuta al fatto che avevo parlato loro in catalano”. Oggi lo studio genovese del più famoso architetto italiano si chiama Renzo Piano Building Workshop e il sito internet è completamente in inglese.

Gaudí era un asceta. Nel 1894 il digiuno quaresimale lo portò quasi alla morte. Quando mangiava, mangiava pochissimo, i suoi pasti erano composti quasi esclusivamente di lattuga e di latte. In tasca era solito portare un uovo oppure uva passa o noci, riserve di energia a cui attingere senza bisogno di sedersi a tavola e staccarsi dal lavoro. Non usò mai occhiali, credeva nell’esercizio oculare, non prese mai una medicina, credeva nella dieta e nella preghiera (e infatti pur essendo stato un bambino molto cagionevole, con parto traumatico, battesimo d’emergenza e prognosi ripetutamente infauste, morì vecchio e non di malattia). Vestiva così modestamente che un giorno, mentre aspettava il tram, fu scambiato per un accattone e gli fu offerta l’elemosina. I soldi finirono nella cassa del sacro cantiere, destinazione di tanti suoi compensi professionali. Non si vergognava di sollecitare le indispensabili donazioni e di raccoglierle di persona. Ogni giorno passava da un negozio dei dintorni dove ogni giorno il negoziante gli dava una peseta per la gloria di Dio. Josep Maria Bocabella, il libraio che per primo ebbe l’idea della Sagrada, per stimolare il sostegno anche del popolo minuto era solito ripetere: “Abbiamo bisogno di pietre di tutte le dimensioni”. Si capisce che se la Sagrada Familia è la Sagrada Familia e il Cubo di Foligno è il Cubo di Foligno, idolo di cemento che ha sconsacrato il santo paesaggio umbro, lo si deve anche al diverso tipo di finanziamento: il capolavoro di Gaudí è stato pagato soldo su soldo dalla comunità locale, coinvolta fin dall’inizio, il mostro di Fuksas è stato finanziato dalla Cei, un remoto, incontrollabile centro di potere che non ci ha pensato due volte a schiacciare la fede e la sensibilità dei cristiani del posto.

Gaudí era un maestro, non un professore. Gli studenti di architettura visitavano quotidianamente il cantiere, rapiti dal carisma di don Antoni a cui piaceva sostenere, in quei pomeriggi febbrili, che la Catalogna era stata prescelta da Dio per traghettare nella modernità l’antica e nobile tradizione della “arquitectura cristiana universal”. Gregotti è un professore, non un maestro. Mi scrive un ex studente della facoltà di Architettura di Venezia: “Teneva uno dei cinque corsi di composizione architettonica. Ha insegnato per anni. Beh, non lui direttamente (solo per cautela, per non rischiare di ustionare gli allievi con la troppa esposizione alla luce dell’astro). A fare lezione erano i suoi assistenti che non beccavano una lira, lui si mostrava in facoltà forse una o due volte all’anno e tutti ne rimanevano abbronzati. Regolare invece il passaggio all’incasso della ricca busta da ordinario. Ma insomma se hai presente la produzione gregottiana diretta puoi solo immaginare quella indiretta uscita dalle matite dei suoi assistenti o addirittura da quelle ancora più stemperate che per l’esame di composizione hanno lavorato con gli assistenti, vedendo il titolare da molto lontano, sui cataloghi e sulle Casabelle monografiche a lui dedicate”. Naturalmente Gregotti, che conosce il mio indirizzo e-mail per avermi gentilmente spedito il suo intervento all’ultimo convegno in Bicocca, ha la più ampia facoltà di replica. Se ritiene che il mio corrispondente sia disinformato o mendace deve solo farmelo sapere che lo rimetto subito in riga, quello screanzato. Se ritiene di aver garantito ai suoi studenti di composizione architettonica una presenza costante sarò lieto di rilasciargli regolare rettifica: “Il professor Gregotti, pur non avendo mai progettato nulla che somigliasse nemmeno lontanamente alla Sagrada Familia, a Venezia si è dimostrato didatta assiduo”.

Gaudí era cattolico, cattolicissimo, riuscì a cattolicizzare perfino un condominio alto-borghese (che fra parentesi non ne voleva sapere): le 150 aperture di Casa Milà rappresentano i 150 grani del rosario. Artista eclettico, alle feste patronali organizzava fuochi d’artificio culminanti con “un trionfo multicolore di lettere gigantesche che formavano le parole Jesús, María, Josep”. Sulla panca sinuosa che delimita la terrazza del Parco Guell fece apporre la scritta “María” capovolta, “così che fosse più facile leggerla dal cielo”. Amava il canto gregoriano e siccome non è mai troppo tardi a sessantaquattro anni suonati decise di impararlo, iscrivendosi a una scuola apposita. La sua giornata-tipo: Messa mattutina, lavoro alla Sagrada Familia, confessione serale. Ogni santo giorno per decenni. Quando venne investito dal tram fatale gli trovarono in tasca un Vangelo. Morì all’ospedale mormorando “Jesús, Déu meu!”, il crocefisso stretto nella mano destra. Per tutta la vita aveva letto la Bibbia (in particolare l’Apocalisse) e il Messale Romano, testi essenziali a cui i progettisti di edifici di culto dovrebbero aggiungere l’Ordinamento Generale che è un po’ il libretto di istruzioni del Messale. Sono poche pagine leggendo le quali chiunque (non c’è bisogno di essere specialisti) può capire quanto la nuova chiesa di San Giovanni Rotondo sia liturgicamente perciò teologicamente sbagliata. Una chiesa senza inginocchiatoi! Adesso un esercizio facile facile: sapendo che secondo i Padri del deserto il diavolo, a causa o per effetto della sua superbia, non possiede ginocchia, e che secondo Joseph Ratzinger (“Introduzione allo spirito della liturgia”) “l’incapacità a inginocchiarsi appare come l’essenza stessa del diabolico”, si ricavi il nome del Principe che si è giovato dell’opera dei tre responsabili dell’edificio, l’architetto Piano, il liturgista Valenziano, il vescovo D’Ambrosio.
Gaudí era caritatevole. A un malato di poliomielite riservò un posto all’ingresso della cripta dove grazie al viavai poteva raccogliere buone elemosine, a un anziano ambulante diede il permesso di vendere le cartoline raffiguranti la chiesa: tutti i bisognosi dovevano poter ricorrere (sono parole sue) “al cappotto caldo del Tempio”. Quando un operaio diventava troppo vecchio non lo licenziava ma gli assegnava lavori più leggeri. Scoprì che un muratore aveva allestito un piccolo orto in un angolo del cantiere e anziché punirlo per l’occupazione abusiva autorizzò gli altri dipendenti a fare lo stesso. Questa benevolenza non gli era naturale, anzi, le testimonianze sulla sua insocievolezza sono unanimi. Solo il cristianesimo può fare di un uomo che non crede nell’uomo un uomo che aiuta gli uomini. Soltanto Santiago Calatrava, l’architetto più amato dagli ortopedici (il suo ponte di Venezia, dai gradini straordinariamente maldisegnati, fornisce loro molti pazienti), poteva infamarlo così: “Il Dio, o piuttosto la Dea, che Gaudí venerava era l’architettura stessa”. Lui di idolatria sì che se ne intende.
C’era un ragazzo partito da Reggio Emilia per Barcellona, un giorno d’estate del secolo scorso, non era ancora stato inventato l’Erasmus o forse sì ma ancora non se ne parlava, comunque la capitale catalana era già considerata il nuovo Paese dei Balocchi e aveva cominciato a suggestionare i suggestionabili ragazzi italiani. Il ragazzo, arrivato insieme a un amico che si trovava in vacanza in Liguria, a Porto Maurizio, e quindi raccolto grosso modo a metà strada, si fece subito una gran scorpacciata di Gaudí sia perché gli piaceva Gaudí sia perché a Barcellona, almeno così gli parve, altre cose importanti da vedere non ce n’erano (ad esempio: il mare dove caspita era finito? eppure sulle cartine Barcellona risultava sulla costa…). Vide il parco Guell, la casa Batllò, la casa Milà, o Pedrera che dir si voglia, e ovviamente la Sagrada Familia, dove salì gli innumerevoli gradini di pietra di una torre altissima e sottile, e nonostante il turismo e il barcellonismo non gli sembrò di essere in un luna park (qualcosa tipo le montagne russe che aveva sempre odiato) ma dentro un cuore lanciato verso Dio oltre l’ostacolo dell’indifferenza. Il giorno dopo il ragazzo, sempre accompagnato dall’amico, andò a Montserrat: le finalità erano mariane anche se poi della visita al santuario trattenne soltanto la visione di una bellissima ragazza con bellissimi occhiali da sole, una specie di lolita kubrickiana però mediterranea quindi con la pelle più scura e più compatta. Vicino alla stazione della funivia ci fu un tentativo di conversazione, presto abortito non tanto per la differenza linguistica peraltro assai lieve (il catalano sarà mica una lingua straniera), quanto per la sorveglianza dei genitori. Passò a Barcellona l’ultima notte spagnola, il ragazzo aveva lavorato come bagnino in Romagna e sapeva che l’ultima notte di vacanza è quella in cui anche le ragazze più ritrose concedono qualcosa, come se a casa dovessero portarsi a tutti i costi il ricordo almeno di un bacio, indispensabile per riscaldare di nostalgia l’inverno tedesco o bolognese, e gli venne la medesima smania e dopo un giro in locali uno peggiore dell’altro si ritrovò sulla rambla non esattamente sobrio e a distanza molto ravvicinata con una creatura di genere incerto, nemmeno lei esattamente sobria. All’ultimo momento l’amico lo strappò da quel pericoloso abbraccio, adducendo motivi sanitari più che morali. Fu un bene: di Barcellona il ragazzo si portò a casa il ricordo della Sagrada Familia e non di un corpo nudo, che di corpi nudi ne avrebbe visti ancora mentre di chiese così mai più nessuna. Per qualche tempo l’amico gli fece presente, specie quando aveva bisogno di un favore o di un prestito, di averlo salvato da aids sicuro ma il ragazzo non ne era così convinto, per quanto la creatura della rambla apparisse effettivamente promiscua e zozzetta, e comunque considerava inelegante l’eccessivo attaccamento alla vita mostrato dai salutisti, dagli atei e dai vecchi. Aids o non Aids, pensava che sarebbe morto ben prima della trasformazione del sogno di Gaudí in realtà, un momento che situava, a naso, nel famoso anno del mai. I giorni sono scivolati come acqua di fiume, senza chiedere permesso sono arrivati un nuovo millennio, una nuova moneta, un nuovo mezzo di comunicazione, tutto un nuovo mondo ha conquistato la scena ma quel ragazzo non è morto e forse domenica 7 novembre riuscirà a vedere, nello schermo del suo computer, Papa Benedetto (che Dio ce lo conservi) consacrare la Sagrada Familia.

scritto da Camillo Langone su



    

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